“Il mastino ha fame”. E’ una delle frasi emblematiche del film ma è anche il leit-motiv di questa produzione: rastrellare quanti più Oscar possibili. Sembra questo l’obiettivo per cui è nato “Il Dubbio”, che si fregia già di 5 Golden Globes (di cui 4 per i ruoli protagonisti e non).
Celebre piéce teatrale di Broadway di John Patrick Shanley e portata con successo in Italia anche da Sergio Castellitto, con Lucilla Morlacchi e Stefano Accorsi come protagonisti, “Il Dubbio” è il racconto di un’indecisione morale. In un’America ancora scossa dall’assassinio di Kennedy, le rigide regole della scuola St. Nicholas vengono allentate da Padre Flynn, prete innovatore e carismatico, convinto della bontà di una disciplina meno ferrea e dell’integrazione razziale, tanto che nella scuola è stato da poco ammesso Donal Miller, il primo studente di colore.
Ma Padre Flynn deve fare i conti con Suor Aloysius, un’ex vedova di guerra che ha fatto del velo un’arma di severità e assolutismo. E quando la novizia suor James (Amy Adams – “Come d’Incanto”) le riporta un episodio poco chiaro tra Padre Flynn e Donald, Suor Aloysius parte con la sua crociata per distruggere il nemico, armata solo della sua furibonda convinzione.
“E’ men male l’agitarsi nel dubbio che il riposar nell’errore”, scriveva Alessandro Manzoni. Ma non è sul “meglio” o “peggio” che va a parare Shanley. Il punto vero è la natura infinita del dubbio, rispetto a errore o certezza. Il dubbio permane, fa parlare, discutere, non fa dormire. Il dubbio agita e quindi crea, fa crescere la storia e i personaggi. E, se il dubbio è condiviso con altri, diventa pettegolezzo (splendido il sermone del cuscino di padre Flynn appunto contro il pettegolezzo).
Straordinaria Meryl Streep (Golden Globe miglior attrice), che tratteggia una donna feroce ma al contempo fragile, che fa della sua crociata anche un moto di ribellione femminista al diverso potere dei preti rispetto alle suore, da sempre in seconda fila. Più complesso il ruolo di padre Flynn (altro Golden Globe Philip Seymour Hoffman, e scusate se è poco) che, rispetto al testo teatrale, si ritrova con un ruolo più ampio e più scene di dialogo. Recitazione ispiratissima, di grande livello, per tutti gli attori. Al di là dei travolgenti Streep-Hoffmann, emerge nei pochi minuti di un’unica scena lunga Viola Davis, che interpreta la madre di Donald. Profonda, viva, concreta, coraggiosa, riesce a ribaltare le irribaltabili certezze morali di suor Aloysius.
Ma la vera grandezza del testo sta nella capacità di impedire allo spettatore di schierarsi: il dubbio, appunto. L’indizio, di volta in volta viene smentito (e non stiamo parlando di una detective story) poi, forse, ricreato e ancora, viene soffiato via. Ogni viso, ogni espressione, possono confermare o smentire, ma solo possono. E’ se anche qualcuno si schiera, ci pensa suor James a riportarlo sul binario, con la sua capacità bilanciatoria.
Scenografie da morsa nello stomaco, estremamente fisiche: autunno e inverno, vento e finestre, ambienti freddi ma intensi. Il film – come film - esce vincitore, eccetto l’ultima scena che, di colpo e non si sa come, pare traslata sul palcoscenico teatrale. Che sia voluto o meno, crea un effetto destabilizzante che intacca la certezza di trovarsi davanti a una pellicola. Ma, forse, questa è l’essenza del dubbio.
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